La lettera in cui Svevo descrive al fratello e al cognato la morte della madre, Allegra Moravia, avvenuta il 4 ottobre 1895, costituisce una sorta di archetipo. In tutta la narrativa sveviana, attorno al letto di morte delle figure di accudimento – la madre in Una vita e nello Specifico del dottor Menghi, la sorella in Senilità, il padre nella Coscienza di Zeno – si svolgono scene che, nei dettagli e nella scansione temporale, rimandano a questa lettera fatale: il moribondo sopporta grandi sofferenze accompagnate da grida, in genere localizzate in area polmonare con difficoltà di respiro, ma dimostra una mitezza e una bontà che rende più doloroso il distacco; il medico, oggetto di irredimibile antipatia e sfiducia, dichiara immediatamente la gravità del caso, impone rimedi palliativi che il malato fatica a tollerare, accetta un consulto con alcuni colleghi e pronuncia formule improntate a fatalismo; il congiunto patisce un senso di impotenza e di inadeguatezza, quando non di colpa, nei confronti della cara figura che si vede costretto a ingannare allo scopo di celarle la gravità della sua condizione e di forzarla ad accettare rimedi di dubbia efficacia; entrambi, il congiunto e il malato, oscillano fra improvvisa speranza e nera disperazione, l’ultimo mostrando a volte di comprendere il passo estremo che gli si para davanti, cerca di trasmettere con grande difficoltà un’ultima parola al primo ma senza riuscirci, per poi scivolare in un’incoscienza che lo conduce alla fine.
Trieste, [senza data]
Carissimi fratelli,
Mi sono alzato adesso e vengo a voi proprio per confortarmi. […] Alla mattina del martedì io fui svegliato da Natalia la quale mi disse che a lei pareva che la cosa andasse molto bene, però c’era un dolore persistente al fianco sinistro e si attendeva il dottore per vedere cosa potesse essere. Doveva essere cosa da nulla visto che la febbre aveva piuttosto diminuito. I medici infatti, ammettendo che fosse cosi, avanzarono però il dubbio che potesse essere una nuova infezione forse anche al polmone, nel qual caso, aggiungevano, la cosa si poteva considerare non disperata ma molto aggravata. Le ore che seguirono furono per mamma le più atroci di tutta la malattia. La febbre non era affatto aumentata ed essa, pienamente cosciente, soffriva orribilmente. Ad ogni respirazione essa urlava dal dolore. […] D’Osmo aveva detto che si doveva trattare di una pleurite, un’infezione ad una parte del polmone. Comunicai a mamma che il dottore aveva detto la cosa essere molto ma molto mite: «Ma mi intanto sofro!» mi rispose, eppure compresi ch’essa aveva una certa soddisfazione delle mie parole. Io non saprei più dirvi come si distribuirono nelle giornate i progressi del male. Nella notte dal martedì al mercoledì i dolori furono sommi. Essa gridò continuamente. Fini ch’essa incominciò mitemente a protestare contro di noi, contro i medici, perché la si lasciava soffrire cosi. […] Quelle 36 ore non saranno certo più dimenticate da nessuno di noi. Tutta la bontà e la mitezza di mamma si rivelarono cosi intere in mezzo a quelle sofferenze che ne ebbimo un ricordo di più, dolce in mezzo a quell’atrocità, e poi una prova nuova di quanto abbiamo perduto in essa. Si risvegliò dal sonno all’apparenza molto migliorata. […] La febbre durante la giornata andò aumentando. Mamma che sapeva molto bene che cosa fosse febbre, mi disse che una volta veramente si usava dare il chinino per la febbre e ch’essa non capiva perché non lo si desse a lei. Io le diedi ad intendere – era il mio ufficio principale d’ingannarla – che il chinino era contenuto nella pozione che le veniva data ogni due ore. Alla sera trovai mamma enormemente peggiorata. La febbre in quel povero organismo era divenuta padrona assoluta, il polso più povero e rapido fino a 120 e oltre al minuto. Intorno al letto tutto rivelava che si era accanto ad una moribonda ed io temevo che anche mamma, in un lucido intervallo, lo comprendesse. […]. Alle dieci, invece, quando ritornò il Dr. Costantini, egli ci tolse ogni speranza con le parole sacramentali: «Forse può risorgere ancora. Chi lo sa? Noi medici no». Le fece un’iniezione di caffeina e se ne andò. Da quel momento per un paio d’ore fu una miglioria continua. D’Osmo aveva detto a me che se la crisi era salutare, ella avrebbe dovuto sputare catarro e sangue. Infatti dopo che da tanti giorni la bocca e il naso erano stati asciutti del tutto, essa riusci a espettorare un paio di volte. Con qualche alterazione nella parola e nel concetto essa ritornò in sé. Le rinacque il desiderio di rianimarsi. Sorbì con voluttà dei caffè neri con uova. Noi tutti, in sala, ci si era messi a saltare e ballare addirittura. In questo breve periodo essa diede qualche segno d’indovinare il proprio stato. Ci vedeva tutti intorno al suo letto: «Dunque sono molto grave? Ricordatevi che se c’è il minimo pericolo voglio Ottavio qui». Poi dimenticò di nuovo questo dubbio ma rinacque. Fece a Paola delle raccomandazioni. Questo più tardi, mi pare, cioè quando in parte aveva già perduto la parola perché a noi non riusci di comprenderla che con fatica. Poi baciò Ester cinque o sei volte per Moise e Ortensia. Non riuscì a dir questo tutto ma si capi perché parlò di matrimonio d’amore, felice e disse ad ogni bacio: «Da, da». Il resto è presto detto. Il polso divenne debole e intermittente e l’iniezione di caffeina che il dottore le fece alle 4 antim. non provocò alcun effetto più. Per dodici ore penò senza riprendere mai del tutto i sensi. Siate rassegnati come lo siamo tutti. […]
Un abbraccio dal vostro
Ettore