Uno degli elementi che, con maggiore evidenza e sicurezza, dalla corrispondenza e dai documenti privati dello scrittore trasmigra nella prosa narrativa è la celeberrima “ultima sigaretta” che, da privata ossessione dello scrittore finisce per diventare il refrain più caratteristico di Zeno Cosini, protagonista del terzo romanzo. Non solo nelle lettere si rincorrono continuamente le promesse e i “solenni impegni” relativi a innumerevoli U.S., ma gli stessi proclami, manifesti, ukase e scommesse sul medesimo tema che riempiono l’archivio di Svevo hanno invariabilmente la forma di una comunicazione a terzi che ne dovrebbe sancire la serietà. Si tratta del più riconoscibile elemento della costruzione di un personaggio di inetto, impacciato e irresoluto che con autoironia e una certa civetteria Svevo elabora descrivendo sé stesso e le sue avventure quotidiane proprio nelle pagine del suo epistolario alla moglie. Nella lettera da Tolone del 1 giugno 1901 assistiamo a una scena davvero comica e farsesca, quasi da slapstick comedy, che fatalmente coinvolge una esplosiva, ma non ultima, sigaretta.
Tolone, 1.6.901
Mia buona Livia, Buon giorno mia buona Livia e buon mese. A quest’ora (qui 7 li 8) tu apri i tuoi occhi verdi imbambolati e cominci a contare i disegni sul muro. Nessuno (spero bene) ti bacia, nessuno violentemente ti toglie al tuo torpore esigendo bruscamente la cravatta, solo la picia viene a schiacciare un ultimo sonnellino a te da canto. A te la va bene. Io non ho che il vantaggio d’esser ringiovanito di un’ora. Oggi, se mi daranno il biglietto, passerò la giornata fra l’arsenale e la Seyne ove sono ancorati i battelli russi. […]
La gente a Tolone è vivace intelligente e cortese. Quando hai levato il cappello e messo nella frase tanti s.v.p. ch’è possibile, ottieni una risposta pronta e cortese. Non è passato giorno che io per le vie non abbia dato la mia matta risata perché ridere solo è tanto difficile. Quando comincio a parlare mi guardano con occhio indagatore non per scoprire la mia personalità ma piuttosto la mia provenienza. Pare si domandino: «Che francese è questo se è francese? Dev’essere di qualche cantone dell’Indo-Cina». Al mio arrivo qui mi trovai come sempre senza sigarette e ne comperai una dal mio cocchiere. Era squisita ed io pensai: Se il cocchiere fuma cosi, chissà come fumerò io? Invece non trovai quella qualità e, pensieroso, guardavo tutti i cocchieri in faccia per ritrovare il mio e domandargli di quale qualità di sigarette si servisse. Ieri uno studente giovinetto m’accosta per domandarmi del fuoco. Ecco il mio uomo, penso io e gli racconto la storia del mio cocchiere. Mi sta ad ascoltare con grande attenzione, guarda una sigaretta Khedive che io gli faccio vedere per dimostrargli che non fumo male e fa una smorfia di disprezzo. «II vous faut du Maryland», dice con convinzione e mi conduce da un tabaccaio. Spendo 60 cent. e ricevo una grande quantità di sigarette che per di più non mi dispiacciono. All’uscita mi congedo dal mio uomo cui ringrazio ma egli mi sta a vedere in aspettativa. S’aspettava certo che senz’altro avrei gettato via le sigarette e tutt’ad un tratto, risoluto, mi dice: «Ma a me i Khedive piacciono». Gliene diedi uno ridendo. Con questa storia del cocchiere e della sigaretta ebbi un’avventura peggiore. Passando davanti ad una baracca vidi che c’erano in vendita delle sigarette con la soprascritta: La Fusée. Sembrandomi che somigliassero a quelle del cocchiere ne presi una e ne domandai il prezzo. La venditrice gentilmente m’avvisò che prendendone sei m’avrebbe accordato un ribasso forte. Prima o poi si fumano, pensai e le presi. Ne accesi una poco dopo e mi fermai a guardare un’automobile che passava. In quella la mia sigaretta si mette a fumare da sola e mi scoppia in bocca con un crepitio abbastanza forte. Lasciai cadere la sigaretta dallo spavento ma non ero sicuro se fosse scoppiata essa o l’automobile. Il chauffeur, però, rideva più di me, ciò che provava che l’automobile non era danneggiata. Io non so ancora esattamente che cosa voglia dire fusée ma ad ogni modo è cosa da cui bisogna stare alla larga e non lo dimenticherò più. Adesso ho cinque sigarette che non so dove mettere perché ho paura che piglino fuoco in valigia. […]. T’invio questa lettera ma mi pare che ti scrivo troppe sciocchezze che assolutamente non servono a riavvicinarci. Forse il mio umore è tale anche perché manco oggi totalmente di v. notizie. Ho un avvilimento in corpo che non ti dico. Domani — mentre io sono qui negro e malcontento — tu riceverai uno e l’altro di quei maledetti giovanotti che bazzicano in casa nostra. Dio me ne guardi, cara Livia, dal fartene un rimprovero ma a me pare che io sono come un capitano marittimo che lascia la moglie eternamente sola. La nostra famiglia può finire male assai. Non volevo mai parlartene ma ebbi tale pensiero al momento in cui il battello si staccava dal molo S. Carlo e lo dissi a Gioachino che alzò le spalle.
Ti bacio e abbraccio, cara Livia, io sarò sempre per te l’antico finché tu sarai l’antica per me.
Ettore